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Memorie di un
filodrammatico - 5 |
(Augusto Bartolini, Memorie di un filodrammatico, Assisi, Porziuncola, 1971)
Il
Teatro Clitunno |
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<57 seg.>Come Dio volle, quella tremenda sciagura finì; ma anche dopo l'aprile del 1945 lo spettacolo delle città devastate, le lotte fratricide, lo sbandamento morale di tanta parte degli Italiani, ci lasciarono sgomenti e irresoluti per parecchi mesi. Fu verso la fine dell'anno, quando, insieme con la volontà generale di risorgere e di affrancarsi dal clima di terrore, di ricostruire sulle generali rovine, si tornò anche a riparlare di Teatro nel nostro piccolo angolo di provincia, anch'esso provato dalla guerra. E fu davvero una reazione, direi quasi violenta, nella nostra attività, tant'è vero che dall'ottobre del '45 al novembre del '46 ben quattro volte facemmo riaprire i battenti al nostro caro Teatro Clitunno. Fu il 4 novembre del 1945 che si rialzò il bel sipario del Bruschi sul primo atto della graziosa commedia di Sabatino Lopez “Sole d'Ottobre”. Il pubblico si diverti a seguire la lieve trama, per cui due maturi personaggi, rispettivamente suocero e suocera di una giovane coppia in crisi, collaborano, malgrado la loro differente concezione <58> della vita, alla riappacificazione dei due sposi e finiscono anche loro col riscaldarsi al calore di un amore autunnale ed a godere di una inaspettata se pur tardiva felicità. La signorina Italia Falasca ed io fummo i due personaggi destinati a riscaldarsi al sole d'ottobre, Carlo Zenobi e la signorina Cianfrini, ospite a Trevi, i due giovani caduti in una crisi destinata a dissolversi al sole di... maggio; ed alcuni personaggi femminili completarono il quadretto. Preso l'aire, durante l'inverno provammo un altro lavoro di un genere tutto diverso. Si trattava di un giallo a forti tinte : “Traversata nera” di Corra e Achille, che fu rappresentato il 20 gennaio 1946. Per quanto l'esecuzione presentasse qua e là qualche incertezza, dovuta alla solita poca diligenza alle prove e nell'apprendere le parti, tuttavia si ebbe un discreto successo sia per l'attrattiva che esercita sul pubblico questa specie di spettacoli, sia per l'allestimento di una scena tutta particolare dovuta all'abilità dell'avv. Carlo Zenobi e corredata da una quantità di accessori. Si trattava di rappresentare la saletta nautica di una nave da carico inglese, con soffitto basso, oblò, mobili particolari, ed occorreva durante l'azione far sentire il pulsate delle macchine, la pioggia scrosciante, il vento, il rumore ed il fumo di un incendio ecc. Tutte cose che avevano ovviamente una grande importanza per dare agli spettatori il senso della realtà della vicenda. Oggi, dopo l'avvento della televisione che dispone di ben altri mezzi, sarebbe apparsa una povera cosa, ma per una Filodrammatica di quei tempi era già molto. La trama era imperniata, come in ogni giallo, su di un delitto, e presentava tipi eterogenei, alcuni dal losco passato: un levantino, due donnine equivoche, un boy malese, un Lord inglese. Tutta questa gente sospettabile, <59>all'infuori di un serafico Pastore con le due ingenue figliole, viene esaminata dal comandante della nave Capitano Dixon, che appare però nei primi due atti stranamente annebbiato (si saprà poi che gli hanno dato un sonnifero). Et li conduce l'inchiesta con l'aiuto dell'ufficiale in seconda; ma una quantità d'indizi contradittori sviano le ricerche. Lia altri. drammatici episodi che costano la vita ad un altro personaggio fanno luce sulla faccenda ed il vero colpevole viene assicurato alla giustizia. lo mi cimentai nella parte del Capitano Dixon, che forse rasentava i limiti delle mie possibilità fisiche, e cercai di essere più duro possibile, specie col più duro dei personaggi cioè col Commissario Brown, impersonato da Paolo Onori, il quale aveva finalmente sottomano una parte per il suo carattere e per i suoi mezzi, ma zoppicò un poco nell'importante scena dello scontro armato col capitano Dixon, perché la sua insicurezza della parte lo costrinse a moltiplicare una serie di feroci ruggiti, in attesa che il suggeritore potesse farsi sentire e rammentargli la battuta di cui si era dimenticato. Ma il pubblico, un po' preso dalla situazione drammatica, un po' impressionato dalle facce feroci che avevano assunto tutti. gli attori che prendevano parte alla scena, forse non ci fece troppo caso. Comunque fu apprezzata la recitazione delle due donne avventuriere, le signorine Gabriella Bersiani e Jolanda Panfili, quella dell'avv. Zenobi, un dinamico ufficiale in seconda, e di tutte le parti di carattere, dal Commissario di bordo Paolo Onori al malese Raimondo Carelli al Levantino Giovanni Ferraro, al lord inglese, scoperto autore del delitto, Nello Giuliani. Lo spettacolo piacque al pubblico e fu ripetuto due volte. Ad essere sincero, non fui troppo soddisfatto dell'esecuzione che rivelò qua e là qualche incertezza, come <60>ho già detto prima, ma a mia parziale discolpa dirò che fui forzato ad affrettare i tempi dall'impazienza di alcuni attori che non volevano sopportare altre due settimane di prove che avrebbero certamente migliorato l'affiatamento, l'apprendimento delle parti e reso più evidente quel clima di tensione che questo genere di lavori esige. Ma, ripeto, il pubblico, sotto l'impressione e la suspence della vicenda, non badò molto per il sottile. Venendo a parlare del terzo lavoro rappresentato in quel famoso 1946, ho la soddisfazione di dire che fu un lavoro veramente riuscito, perché la possibilità di disporre di pochi elementi e scelti, la serietà della preparazione (salvo qualche piccolo particolare) portarono ad una esecuzione accurata e piacevole per il pubblico. A questo contribuì anche la scelta della commedia che era: “Questi ragazzi!” di Gherardo Gherardi. Anche in questa vicenda, come in “Sole d'Ottobre” sono messe a confronto due coppie. Una coppia di giovani, diremo oggi, contestatari dell'amore e del matrimonio, appena sposati, ma decisi a liberarsi di quel matrimonio imposto dai parenti ed in modo speciale da una zia matura e di tendenze romantiche. Questa costituisce parte della seconda coppia e fin dal principio l'aspirazione di un onesto e maturo medico di campagna che trova però una opposizione tanto ostinata quanto inspiegabile per lui. La zia, che li ha allevati fin da bambini, accoglie gli sposi con gioia ed entusiasmo per la loro supposta felicità. Questi non hanno il coraggio di dire la verità, ma intanto cercano tutti i mezzi per rompere quel nodo che considerano illogico e innaturale. Le vicende dell'amore sfortunato del Dottore l'interessano e cercano di favorirlo sperando di farsene un alleato. Ma l'esperienza di un loro amico che si era insinuato presso di loro e con la scusa <61>della spregiudicatezza professata dai giovani, si mette a fare la corte alla sposa, ed in più l'aria di famiglia, la vicinanza giornaliera, portano la coppia a riconsiderare la loro posizione ed ad assumere un atteggiamento più umano e conseguente. La conclusione è felice : finalmente la Zia si accorge della vanità di certo sogno romantico che l'aveva accompagnata per tanti anni della sua vita, e riesce ad accettare l'idea di un matrimonio col Dottore sempre disponibile, non innamorato, come dice lui, ma disposto a volerle bene per tutta la vita. E sono le prime tenerezze che si scambiano questi due non più giovani fidanzati che fanno esclamare ai due giovani sposi, ormai riconciliati : “Questi ragazzi!”. Così il contrasto fra due generazioni si attenua in una benevola comprensione. Ormai la signorina Falasca ed io non eravamo più nuovi nella parte degli innamorati maturi, Quanto alla Falasca, la parte della zitella romantica, che conserva un medaglione che le ricorda un amore immaginario, fu delineata in modo spontaneo e piacevole; forse fu una delle sue migliori interpretazioni. Anche la mia parte, che non presentava grandi difficoltà, mi parve di renderla verosimile e simpatica. Altrettanto bisogna dire degli attori che rappresentavano la giovane coppia. Mia moglie, alla quale affidai la parte di Giovanna fu all'altezza della situazione. La sua snella figura ed una riuscita acconciatura le permisero di rappresentare ottimamente una sposetta poco più che ventenne; fu spontanea nella sua vivacità e nella sua apparente spregiudicatezza e seppe rivelare nel momento cruciale la riluttanza ed il saggio prevalere della ragione su tutti quei progetti pazzeschi da lei escogitati per metter in atto la sua contestazione. L'avvocato Zenobi fu anche lui un ottimo Vincenzo, vivace, prigioniero della sua forma mentis, analoga a quella <62>della giovane sua sposa, ma non convinto in fondo e quindi pronto alla capitolazione finale. Per parlare di un altro personaggio, cioè dell'amico che li seguiva nel lor bianco viaggio di nozze, impersonato da Raimondo Carelli, dovrei dire che tale personaggio, presentato dall'autore in chiave satirica, si prestava ad una recitazione spigliata, ironica, ricca di boutades, ma il Carelli, come al solito, per la sua inguaribile antipatia allo studio delle patti, mancò di vivacità in alcune scene con la giovane sposa. La commedia fu ripetuta due volte, lasciando una buona impressione sul pubblico e sugli attori. Eravamo ormai lanciati. La carica di entusiasmo non era ancora esaurita, quindi mi misi all'opera per preparare un altro lavoro. Questa volta la mia scelta cadde su di un genere più serio, se non proprio su un dramma, su di una commedia drammatica. Questa fu “Ombre di ieri” di Alessandro De Stefani che fu rappresentata la prima volta il 12 dicembre 1946. L'argomento si riferiva ad un episodio doloroso avvenuto 18 anni avanti durante la prima guerra mondiale. In un paese del Veneto, durante l'invasione nemica del 1917, un ufficiale austriaco usò violenza alla giovane moglie di Luigi Battelli, in quell'epoca combattente di prima linea, innamorato e gelosissimo della sua sposa. E siccome questo fatto ebbe come conseguenza la nascita di una bambina che venne nascostamente alla luce in un cascinale lontano; la sorella di lui, con un atto generoso, conoscendo il carattere del fratello per evitargli una grande sofferenza, a guerra finita al ritorno di lui gli fornì una versione dei fatti diversa dalla realtà, facendo credere a lui e a tutti che Lei stessa, e non sua cognata, fosse la vittima della brutale aggressione, e che fosse Lei la madre <63>della bambina, che allevata in casa era ormai diventata una giovinetta. Qui comincia l'azione e si prospetta una crisi. Il protagonista, che è un industriale, è in rapporti con una ditta austriaca il cui titolare ha mandato suo figlio per un incontro di affari. Questo giovane s'innamora della giovinetta e corrisposto chiede di sposarla. Ed ecco il dramma. La vera madre, sapendo che il giovane fidanzato è austriaco ed ha un nome che ricorda quello del suo aggressore, si oppone alle nozze. La cognata, messa alle strette dal fratello, che la crede madre della ragazza, e invitata a dare il suo consenso con argomenti che sempre più acuiscono il dolore della sua piaga nascosta, ha finalmente uno scatto di ribellione e le scappa qualche parola che mette in sospetto il suo geloso fratello. È la ribellione giustificata di una donna che ha sacrificata tutta la vita e la possibilità di sistemarsi per evitare al fratello la terribile notizia. Ora il marito è in faccia alla moglie; vuol sapere la verità e questa viene fuori finalmente dopo un colloquio drammatico e getta nella disperazione l'uomo a cui l'idea di quello che è avvenuto di sua moglie riesce insopportabile. Fortunatamente un amico di famiglia svela un particolare importante che contribuisce a placare l'animo agitato del protagonista; quell'ufficiale che ha usato violenza alla donna è morto pochi giorni dopo, colpito da una bomba di aeroplano caduta poco distante dalla villa cd è sepolto nel vicino cimitero. Cade così il sospetto sulla paternità del giovane fidanzato che può sposare l'inconsapevole giovinetta; si dileguano le ombre di ieri in un'atmosfera di comprensione e di pace in seno alla piccola famiglia. Il lavoro fu seguito con attenzione ed ebbe alcune reazioni da parte del pubblico che può essere interessante ricordare in queste memorie. <64>Una di queste reazioni interessa mia moglie che fu forse la migliore interprete della commedia nella parte della infelice sorella sacrificata. Ebbe accenti di umanità e di ribellione dolorosa per il suo avvenire desolato, per la sua falsa maternità, per la sua amara e forzata rinuncia ad una vera maternità che ormai le era stata negata per sempre. Quella scena di cui ho parlato veniva presentata ad un pubblico, il pubblico di un piccolo centro che conosceva naturalmente ogni particolare della vita reale di tutti gli attori. Spiegabile quindi la reazione alla scena in cui mia moglie, nella parte di Ida, doveva pronunciare con amarezza la frase: “Avessi almeno avuto un figlio mio!”. Il pubblico che sapeva che l'attrice nella vita reale era già madre felice di ben nove figlioli, non poté trattenere un mormorio molto significativo! Ci fu anche un altro episodio che può essere istruttivo ricordare. Nella mia parte di protagonista al secondo atto dovevo avere una scena drammatica con Italia Falasca, a cui avevo affidato la parte di Claudia, la moglie involontariamente infedele. In quella scena dolorosa in cui la triste verità si fa piano piano strada nell'anima dell'uomo tormentato dalla gelosia, attraverso i ricordi delle circostanze del passato, io volli esprimere con una recitazione misurata, composta, tutto il dolore intimo connesso con la volontà di padroneggiarlo, un dolore espresso dal viso, con il concorso di pochi gesti e di parole dette con tono piuttosto basso, ma profondo. Ebbene, volete crederlo Mentre io soffrivo il mio personaggio in quell'atteggiamento un po' statico che talvolta assume il dolore più profondo, odo una voce di uno dal loggione che chiama per nome uno spettatore in platea di cui erano note le disgrazie coniugali! Al mormorio che accompagnò quel nome io gelai <65>dentro e terminai alla meglio la scena che per quella inopportuna e ineducata interruzione si chiuse con una certa freddezza. Ma fu per me una lezione dura e salutare. Capii che anch'io avevo la mia parte di torto perché non avevo saputo prevedere le possibili reazioni del pubblico, in modo speciale del pubblico del loggione. Di conseguenza alla seconda rappresentazione in quella medesima scena mi comportai in modo del tutto diverso. La mia reazione al momento cruciale della scoperta della verità fu addirittura violenta : afferrai la donna per le spalle, la scossi e le urlai faccia a faccia la mia disperazione e il mio dolore. L'applauso a scena aperta mi confermò che quella era la via che il nostro pubblico preferiva. Non voglio dimenticare gli altri dilettanti che contribuirono al successo di questo lavoro. Fu, credo, la prima volta che Ninì Di Tomaso si presentava sulla scena e fu ingenua e graziosa nella parte della giovane Lorenzina; altrettanto bene Giorgio Cecchini, figlio di “Gigetto de Paoluccio” nella parte del giovane austriaco. Di ottimi mezzi vocali apparve dotato Gaspare Santoni, seppure un po' freddo nella recitazione. Così finiva l'anno 1946 che fu non soltanto l'anno più laborioso per la nostra Filodrammatica, ma vide anche nel nostro Teatro Clitunno il sorgere e l'affermarsi di un'altra Filodrammatica che presentò una serie di ben riusciti lavori in simpatica emulazione con la vecchia nostra “Luigi Biagi”. Dato che gli elementi appartenevano principalmente alle frazioni di Bovara e Borgo Trevi prese il nome de “I periferici”. Promotori di questa nuova attività furono due bravi ed intelligenti giovani, Ugo e Mario Bonaca, figli di quel Comm. Bonaca, benemerito mecenate del nostro Teatro, che abbiamo già ricordato. Il primo di essi, Ugo, <66>aveva già recitato un paio di volte con la nostra Filodrammatica. Forniti di entusiasmo e con mezzi e tempo a disposizione e valendosi dell'amicizia di un illustre scenografo di Cinecittà, il prof. Virgilio Marchi, già prima che noi mettessimo in scena “Sole d'Ottobre”, a fine estate 1945 presentarono “La Nemica” di Niccodemi e fu un debutto che dimostrò fin da allora una seria preparazione ed un'accurata regia. Dopo il nostro “Sole d'Ottobre” eccoli ancora in scena con “Esami di Maturità” che fu una delle loro migliori presentazioni. Nella delicata commedia di Fjodor, che si svolge in un ambiente tipicamente scolastico, mi piacquero Mario Bonaca, per la sua recitazione sobria e composta nella parte del Preside, Ugo Bonaca fece una gustosa macchietta della parte caratteristica del prof. Scatola, e Giustina Bonaca che fu un'insegnante dolce e rassegnata nel suo non corrisposto amore. Piacevole la Paoletti nella veste della studentessa ingenua e spensierata. Un'altra notevole esecuzione ebbe luogo prima della fine dell'anno con “Incantesimo” di Philip Barret, lavoro il cui significato non era facilmente accessibile alla maggior parte del nostro pubblico, ma che dimostrò ancora una volta una seria preparazione. Tanto i lavori nominati quanto quelli che vennero poi, vennero presentati in una cornice di scenari fuori dell'ordinario, da compagnia di professionisti, dato che glielo consentivano l'assistenza del prof. Virgilio Marchi e i mezzi a disposizione. Così nella famosa “Zia di Carlo”, condotta con brillante vivacità dagli attori sotto la regìa di Mario Bonaca che ne fu il principale protagonista, c'era fra l'altro un delizioso scenario che rappresentava l'esterno di una villa inglese. Ancor più interessante fu lo sfondo scenico della commedia “La famiglia Barrett” di Rodolfo Berry che fu <67>presentata nella primavera del 1946, nella quale il protagonista Ugo Bonaca ci diede il meglio di sé stesso, e tutti gli altri dimostrarono di aver raggiunto un ottimo affiatamento, muovendosi a loro agio nei decorosi costumi dell'epoca. Proseguendo nel loro entusiastico lavoro, in agosto presentarono “Sera d'inverno” di Sigfrido Geyer ma io non la vidi perché ero assente. Sembrava che ormai si dovessero riposare sugli allori, quando invece venne annunziata a compimento della stagione una novità, una commedia scritta dallo stesso Mario Bonaca, intitolata “E ancora un romantico...” che fu presentata il 26 ottobre di quell'anno eccezionale. La commedia pur essendo opera di un dilettante, possedeva elementi capaci di produrre buoni effetti teatrali ed ebbe un buon successo, malgrado qualche critica non benevola dovuta alle solite invidiuzze locali. L'azione inizia in pieno dramma. Un seduttore viene ucciso con un colpo di rivoltella da un uomo a cui egli aveva tolto la fanciulla amata, rovinandone l'esistenza. Poi, con una specie di dissolvenza cinematografica che richiama la commedia americana "Romance” di Edward Sheldon, viene presentato in vari quadri tutto l'antefatto : la nascita di un amore ingenuo, la seduzione, il traviamento e l'abbandono della ragazza, il ritorno di lei all'uomo che veramente l'amava ed infine il tentativo del seduttore di riprenderla e la conclusione disperata. Un gruppo di attori bene addestrati e una cornice di decorosi scenari ideati dal prof. Marchi contribuirono al successo di questa ultima rappresentazione che i Periferici dettero a Trevi in quel periodo veramente straordinario. Purtroppo, poco tempo dopo, uno dei due fratelli, Ugo, si trasferì a Firenze per esercitarvi la professione <68>di medico pediatra, l'altro fratello, Mario, partì per qualche tempo per l'America, dove, per strana combinazione, a New York, si incontrò con alcuni attori che avevano recitato a Trevi e che mi conoscevano. I Periferici si produssero soltanto altre due volte nel 1949, quando il Dott. Ugo, trovandosi a Trevi in ferie, presentò con la sua regìa due lavori “Divorziamo!” di Sardou e “Baci perduti!” di Birabeau, due lavori che erano piaciuti anche a me e che avevo tentato di mettere in scena senza riuscirvi. I due lavori, pur con qualche manchevolezza dovuta alle non poche difficoltà che presentavano, piacquero al pubblico, con la differenza che la commedia di Sardou accontentò di più la massa degli spettatori e l'altra soltanto i più raffinati. Così si concluse il breve, ma fortunato ciclo dell'attività dei Periferici. Come vedremo in appresso però i due fratelli Bonaca si unirono ancora due volte alla nostra Filodrammatica e contribuirono validamente al successo di due importanti rappresentazioni. Riprendiamo il nostro racconto. Dopo la tumultuosa attività dell'anno 1946, ci fu un periodo di riposo di diversi mesi: Sul finire dell'anno seguente, in occasione della festa di Santa Cecilia, il 22 novembre 1947, la Società Bandistica Trevana volle organizzare, fra l'altro, una serata musicale al Teatro Clitunno, e mi chiese di presentare un atto unico da servire da intermezzo fra la prima e la seconda parte del programma. Fu così che scelsi “L'Anniversario” di Antonio Cecov. Un lavoro del genere esigeva un'accurata preparazione e comportava il rischio che il grosso pubblico non afferrasse il vero significato del lavoro cecoviano, scambiandolo con una semplice farsa senza comprenderne il <69>sottofondo amaro e la sofferenza espressa dai personaggi della vicenda che, pur trovandosi in situazioni comiche e ridicole, soffrono e si dibattono nel loro piccolo mondo ristretto e senza vie di uscita. Volli perciò far precedere l'atto unico da una mia presentazione a sipario chiuso nella quale insieme a qualche notizia sulla vita e sulle opere dell'Autore spiegavo il significato dell'“Anniversario”, facendo notare come i personaggi della vicenda, mentre muovevano il riso suscitassero anche un senso di pietà per le loro sofferenze. Conclusi facendo uscire sulla ribalta uno alla volta gli attori, presentandoli in un loro atteggiamento caratteristico. Questo mio discorsetto giovò senz'altro alla comprensione del lavoro che fu accompagnato da risate e applausi, sebbene il finale venisse un po' compromesso dall'indisciplina di un attore. La vicenda rappresentava i preparativi dei festeggiamenti per l'anniversario della fondazione di una banca, ma i maggiori responsabili di questi preparativi, il Presidente ed un impiegato contabile, tutti e due nevrotici e malandati di salute, vengono terribilmente frastornati sia dalla moglie del Presidente stesso, ciarliera e nevrotica anche lei, sia da una postulante arcinoiosa che ripete fino all'ossessione le stesse parole di preghiera. Finisce che quando entrano solennemente i membri della deputazione per offrire una pergamena e un dono al Presidente, nella scena c'è un mezzo pandemonio: la moglie del Presidente è in convulsione sopra un divano terrorizzata dall'impiegato che fuori di sé minaccia di strangolare lei e la noiosa postulante. Questa intanto è svenuta nelle braccia del Presidente, anche lui in preda ad un attacco nervoso. L'arrivo della Commissione capeggiata dal membro anziano che doveva leggere il discorso <70>d'occasione doveva chiudere rapidamente il quadro. Nel testo era riportato un discorso di dieci righe che non era assolutamente rappresentabile, ed avevo formalmente prescritto all'attore di pronunciare soltanto due o tre parole, e al macchinista di chiudere immediatamente il sipario. Invece l'attore attaccò imperturbabile e proseguì per tutto il lungo discorso ed il macchinista si dimenticò di chiudere il sipario, mentre io continuavo a star con quella donna svenuta in braccio, e la moglie in convulsioni sul divano e l'impiegato urlava e pestava i piedi come un energumeno. Il finale fu compromesso perché la scena condotta fino allora con la massima dinamicità, divenne a un tratto insopportabilmente statica. Dovetti a malincuore ingoiare questa amarezza, tanto più che non c'era una seconda rappresentazione per riabilitarsi. Peccato perché il lavoro era stato seriamente preparato ed i quattro personaggi principali erano stati felicemente delineati: Io ero il Presidente vanitoso e debole di nervi; Loretoni Alberto, l'impiegato nevrotico; Ninì Di Tomaso, la moglie petulante e ciarliera e Gabriella Bersiani, una postulante noiosa come una zanzara e adesiva come la colla cervione. Ormai le nostre rappresentazioni hanno ripreso il ritmo normale della loro frequenza. Passato quel periodo dell'immediato dopoguerra, con la ripresa di tutte le mie occupazioni, non mi riusciva possibile dedicare molto tempo alle prove giornaliere che perciò si dovevano protrarre a lungo, spesso per alcuni mesi. Per la seguente rappresentazione scelsi un lavoro che avevo visto rappresentare dall'attore Aristide Baghetti e che mi aveva divertito molto per la sua esuberante comicità. Era un lavoro dello spagnolo Alvarez Seca ed era intitolato “I milioni dello Zio Peteroff”. Fu rappresentato <71>il 26 settembre 1948 dopo un lungo periodo di prove necessario per affiatare i numerosi personaggi che agivano nella commedia e raggiungere quella scorrevolezza del dialogo necessaria a questo genere di lavori. Il titolo originale della commedia era “El ultimo bravo” cioè l'Ultimo Spaccone. Ed è veramente tale lo Zio Peteroff, il cui vero nome è Primo del Castello, uno spaccone squattrinato ma pronto ad inventare trovate e milioni esistenti solo nella sua fantasia. Infatti si spaccia per lo Zio ricchissimo del giovane Marchese de Fortuny il quale, rovinatosi nel giuoco, dopo un tentato suicidio finge per consiglio di un amico di aver perduto la memoria. In mezzo ad una complicatissima serie di bizzarre avventure, nella cornice di una strana clinica per amnesiaci, il protagonista inconsapevolmente riunisce due coppie di innamorati che non avevano trovato la via giusta per intendersi e risolve la crisi finanziaria del suo presunto nipote. Alla fine viene smascherato, ma quando sembra che stia per affogare in un mare di guai, trova un'ancora di salvezza e finisce con lo sposare una matura vedova dotata di poco cervello ma di molti quattrini e si assicura per sempre una buona posizione economica. Come ho detto, non fu facile affiatare i diciassette personaggi della commedia, ma fortunatamente nella lista non vi erano quelli refrattari a mandare a memoria la parte e quindi il dialogo si svolse in modo vivace e spontaneo. La mia parte di chiacchierone e imbroglione esigeva una recitazione veloce ed una mimica comicamente espressiva ; le favorevoli reazioni del pubblico mi aiutarono a mantenere il carattere ad un alto livello di comicità, pur senza esagerare. A dire il vero, tutti gli altri attori recitarono con notevole impegno e, salvo un leggero disordine nella difficile e affollata scena finale, tutto filò <72>discretamente. Da ricordare, fra le parti maschili particolarmente i due fratelli Cecchini, uno dei quali, Giorgio, era il Marchese de Fortuny, il falso smemorato, e l'altro, Gastone, era il suo amico medico; e fra le molte parti femminili la giovanissima Laura Listanti che aveva la figura ed il viso di una bruna Spagnola ed era la protagonista, la brava Ninì Di Tomaso che presentò nella parte di Claudia, la ragazza nevrotica ed esaltata, una efficacissima e comicissima figura, la sua sorella Gigina Di Tomaso che fu spontanea ed aggraziata nella parte della sorella della protagonista. Silvana Giovannini se la cavò discretamente presentandoci una donna Giulia buffa ed agitata. Le gustose macchiette dei medici curanti e degli ospiti della clinica per amnesiaci furono tratteggiate da Francesco Bartolini e Lanfranco Zappelli, l'uno mio figlio l'altro mio nipote, i quali accentuarono la caricatura di un certo tipo di psichiatri, mentre comiche figure di amnesiaci ci diedero Antonio Sebastiani e Diana Marianucci.1 . Questa commedia-farsa divertì molto il pubblico e fu ripetuta la Domenica seguente 3 ottobre 1948. Nei manifestini programma di cui conservo un esemplare, si faceva presente in una noterella in calce che l'aumento del prezzo dei biglietti era stato imposto dalla necessità di bilanciare le entrate con le spese in continuo aumento. Ma ahimè, anche quella volta il bilancio non fu attivo, perché le spese crescevano più velocemente delle entrate! |
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Note 1) Ricorda Diana Marianucci che il prof. Bartolini li definì - lei e il Sebastiani - amnesiaci autentici. Antonino Sebastiani nella sua lunghissima carriera di filodrammatico era universalmente noto per non studiare mai la parte e la Marianucci, allora giovanissima e un po' svagata, frequentemente dimenticava le battute, per cui il povero regista aveva qualche buon motivo di sentirsi un po' scoraggiato! (comunicazione orale del 25/2/2005) |