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Elena Berti Toesca
Due dipinti sconosciuti delSodoma
in Dedalo XI -1931- pag.1334-1338
Tommaso Valenti,( La chiesa monumentale della Madonna delle Lagrime, Roma, Desclée, 1928, pag 227), a cui si rimanda per la foto del dipinto di Trevi, ipotizza l'attribuzione del dipinto di Trevi a Sebastiano dal Piombo. |
Nessuno ha saputo indicarmi di dove provenga alla Confraternita della Madonna dell'Orto in Roma un dipinto che sotto le annebbiature del tempo e della patina mostra facilmente grandi qualità. È un quadro che si può dire quasi sconosciuto. nascosto nelle modeste stanze di quella confraternita di bottegai e rivenditori romani. che pure lì accanto ha saputo costrurre una delle più adorne chiese di Roma: Santa Maria dell'Orto, la cui cupola fu affrescata, il pavimento finito e la ricca decorazione compiuta in diversi anni a spese dell'Università dei fruttaroli. vernicellari. pollaroli, etc., che vi ebbe la sua chiesa e anche le sue sepolture. Dentro una vecchia cornice è una tavola (pag. 1335) rappresentante la Pietà, col Redentore seduto sul sarcofago e sostenuto dagli angioli. I confratelli riportano del dipinto le attribuzioni più eterogenee, ma tutte lontane dal giusto segno, al quale può giungere chi attentamente osservi.
L'insieme richiama sùbito alla pittura dell'Italia settentrionale, dove
composizioni di questo genere. specie nell'arte veneta. furono tanto frequenti; e a guardare sommariamente il dipinto ci si potrebbe appunto rivolgere alla scuola veronese, mentre certe gonfiezze nel disegno e la generale oscurità hanno anche suggerito a qualcuno il nome di Liberale da Verona. Ma quando si riesca a rivedere la pittura originale liberata dall'offuscamento, che un prudente restauro potrebbe facilmente togliere, vi si trova uno studio di luce e di chiaroscuro che fa rivolgere l'attenzione ai lombardi; ed ecco che nei due angioli di destra che sorreggono il Cristo si mescolano a pochi riflessi raffaelleschi, particolarmente visibili nell'angiolo di destra, quelli assai più vivi di Leonardo. Nell'angiolo che sovrasta tutto il gruppo il leonardismo apparisce con la massima intensità nel gioco di luci e di ombre e persino nelle fattezze. Pure, il secondo angiolo a sinistra, contorto e magro, sembra accennare le angolose forme dei pittori piemontesi. Tra le figure degli angioli improntate a un vago idealismo il Cristo spicca per un senso di rilievo e di realtà che novamente afferma la tradizione dell'Italia superiore; ma nell’anatomia di questa stessa figura si sente che il pittore deve aver riguardato l'antico. Dall'insieme di questi caratteri sorge chiara non soltanto l'individualità, ma il nome dell'ignoto artista. Appartengono al Sodoma quegli angioli di cui egli ha ripetuto infinite volte il tipo dalla grossa bazza e dal naso corto, dai capelli ora sciolti in ciocche umide ora artificiosamente inanellati; appartiene a lui e alla sua discendenza indubbia da Leonardo quel chiaroscuro dell'angiolo sopra la testa del Cristo ed anche il senso patetico che nel Cristo sorge dal profondo e ne pone la figura tanto in alto in mezzo agli angioli, più freddamente idealizzati; qualità che si può riconoscere persistente nel Sodoma, anche se attenuata molte volte dal suo voluto classicismo. Credo elle non occorra insistere su confronti particolari, ma ne richiamo i principali: la derivazione di questo Cristo da quello più rude e primitivo, ma assai simile della Deposizione di Sant'Anna di Camprena dove le mani del Redentore son disegnate pesantemente come nel quadro della Madonna dell’Orto, mentre, sempre in questo, le mani degli angioli hanno quel caratteristico convenzionale affilarsi delle dita che poi il Sodoma ripeterà continuamente, diminuendone sempre più la modellazione. Inoltre l’angelo di sinistra del nostro quadro è quasi ripetuto in opere del periodo senese, sempre sul lontano modello leonardesco. A noi interessa ora il problema cronologico dell’esecuzione del dipinto. E mi pare che esso si risolva con le osservazioni già fatte. Qui già s’intravede l’influenza umbra e poi raffaellesca; ma è soverchiata ancóra dalle reminiscenze dell’Italia superiore e di Leonardo in particolare. Lo studio del nudo non è qui portalo a quelle finezze ideali che si vedranno dopo, o nella Deposizione dell’Accademia di Siena, o nel San Sebastiano di Palazzo Pitti: e si può concludere che il dipinto risale a uno dei primi soggiorni del Sodoma a Roma, quando lavorava nel Vaticano, e più precisamente al 1508, mentre già si manifestava 1'influenza di Raffaello, che poi lasciò tracce in tutte le successive opere del pittore.
Un'altra tavola richiama il nome del Sodoma, sebbene non così palesemente.
É a Trevi, ma proviene anch'essa da Roma e per strane vicende. Nelle memorie inedite di Benedetto Valenti, avvocato fiscale, come risulta dalle diligenti ricerche di T. Valenti(1), si trova ricordato che «la reverenda camera apostolica del dicto anno 1531 essendo stata iustitiata una donna che teneva camera locanda in Borgo per avere admazato uno... ne donò (dei suoi beni, al Valenti) una callidissima cona in tavola». Il Valenti inviò a Trevi la bella ancona che aveva appartenuta all'ostessa giustiziata e la fece porre in Santa Maria delle lagrime, donde solo da pochi anni fu tolta per restaurarla e porla nel Museo. C’è da supporre che l'ostessa avesse avuto il quadro da uno dei tanti pittori che passarono a Roma nel primo trentennio del ‘500, per non poter egli in altro modo saldare il conto della locanda. Dentro una mediocrissima cornice del XVI secolo è una tavola rappresentante anch’essa una Pietà (pag. 1337): composizione assai più complessa che l'altra, più idealizzata, sebbene anche in questa il pittore sia riuscito a dar sempre alto significato e massimo rilievo alla figura del Redentore. È il momento del seppellimento; e il vecchio d'Arimatea sostiene il corpo del Cristo abbandonato con un senso di delicatezza e di soavità che è pur sempre leonardesco, ma che ci ravvicina alle più tarde forme del Sodoma. Riflessi dell'arte di Leonardo si possono trovare nella figura del vecchio a destra e in quello all'estrema sinistra dai lineamenti alquanto caricati. Ma ad analizzare l'opera si vede quanto l'artista si sia appropriato delle forme della pittura umbra (in particolare si osservi la Maddalena) sebbene non ancòra dimentico di quelle settentrionali, tanto che l’atto scomposto del vecchio che sorregge il Cristo potrebbe far quasi pensare a Gaudenzio Ferrari. Particolarità morfologiche che possono confermare l’attribuzione da me proposta al Sodoma sono le mani affilate; la stessa Madonna, tanto simile alle teste dell'affresco di santa Caterina a Siena, in San Domenico; e la tendenza come nell'altro quadro a poca varietà di toni per un fare quasi monocromo, specie sulle carni morelle, con leggere ombreggiature. Ma la fusione di elementi diversi è qui assai più riuscita che nella Pietà di Santa Maria dell'Orto e perciò il dipinto si può riferire a un periodo più inoltrato nell'attività del Sodoma, appunto a quello in cui il pittore riuscì ad una maniera più semplice ed abbreviata, tutta rivolta a finezze, al cui termine sta un capolavoro: il San Sebastiano di Pitti. Anche per questa Pietà sono state proposte, pur da critici ascoltati, le più varie attribuzioni, e insistentemente su tutte quella a Sebastiano del Piombo. Ma in nessun momento di questo pittore potrebbe trovar posto la Pietà di Trevi che non ha né caratteri veneziani, né quegli elementi raffaelleschi o michelangioleschi che poi predominarono nei successivi periodi dell'arte di Sebastiano del Piombo; e soltanto il nome del Sodoma mi sembra appropriarsi a questa fine opera dimenticata. ELENA BERTI TOESCA. (1) La chiesa monumentale della Madonna delle Lagrime a Trevi, Roma, 1928.
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