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Francesco Barbini
(1905 - 1981)

 


Cav. Francesco Barbni "Il Cochetto"

Nacque a Trevi il 23 Settembre 1905. Il padre, Cesare, d’origine assisate, acquistò una delle antiche trattorie trevane, quella dei Signori Dell’Oste, ubicata in via Dogali.

Da giovane fu un abile venditore di macchine da cucire. Questa attività gli permise d’avere una delle prime motociclette che si videro a Trevi.

Vantava un certo successo con le donne, tanto che si sparse la diceria che le corteggiasse con l’unico scopo di piazzare le sue macchine per cucire. Gli piaceva moltissimo viaggiare e interessato com’era al turismo gastronomico, ebbe una sincera preferenza per le città emiliane ed in particolare per Modena, dove aveva prestato il servizio militare quale cuoco alla mensa ufficiali.

La morte della madre, alla quale rimase fortemente attaccato per tutta la vita, e l’avanzata età del padre posero il problema di cedere l’attività. Contrariamente a quanto si potesse aspettare, decise di continuare l’attività paterna.

In questa attività lui portò tutta l’esperienza di chi sin da bambino aveva frequentato la cucina paterna e l’aspirazione d’innovare la ristorazione a Trevi.

 

 

Non fu facile l’impresa. Quelli erano tempi in cui di ristoranti veri e propri ce n’erano pochissimi in Umbria ed il solo pensare di attivarne uno a Trevi era impresa da pazzi, tanto è vero che si guardò bene d’esternare a qualcuno questa sua mira.

La gran parte dei frequentatori delle trattorie erano persone che solevano generalmente prendere un primo piatto, tanto per accompagnare con qualcosa di caldo ciò che portavano dentro la “liacciola”. Quelli che consumavano un primo ed un secondo piatto raramente si scostavano da un menù che prevedeva  minestra, pastasciutta, fagioli, bollito, spezzatino, stufato, coratella ecc.

Anche il menu dei ristoranti, d'altronde, poco si discostava dalle varianti “giovedì gnocchi e sabato trippa” e dall’imposizione: se hai mangiato il brodo ora ti mangi anche il bollito.

La chiave di volta per realizzare la sua impresa la vide nel catering, come oggi si chiama.

Si può omaggiare anche in tale circostanza la teoria vichiana dei corsi e ricorsi storici ma occorre evidenziare il rilievo che non sempre le cause sono le stesse.

In quei tempi recarsi a ristorante, per  taluni, era quasi disdicevole e le classi più agiate, che traevano le loro fortune dall’agricoltura facendo il mestiere di “possidente”, una delle tante professioni ormai scomparse, ricercavano altre soluzioni.

 

Costoro, in occasione di battesimi e matrimoni, trovavano molto utile ed economico preparare i loro banchetti nelle loro spaziose case. Queste erano piene di ogni ben di Dio, nulla mancava di tutto ciò che occorreva: farina, uova, polli, tacchini, faraone, vino e servitù compresa.

L’unica cosa che faceva loro difetto era  la stoviglieria e quel tanto di mestiere che avesse  consentito un pasto diverso dal solito. Cercavano, pertanto, un abile cuoco che, oltre a fornire la  stoviglieria, preparasse un menù all’altezza della situazione.

Oggi, a ben pensarci, il catering parte da motivazioni esattamente opposte.

Fu così che Francesco, detto Checco, cominciò a mostrare la sua abilità e pubblicizzare i suoi piatti.

L’attività di catering reclamizzò non poco la sua trattoria e andare a mangiare al suo locale divenne quasi un appuntamento fisso in occasione dei mercati e fiere che, allora numerose, si svolgevano a Trevi.

Ciò gli impose di ampliare il locale: cosa che fece portandolo ad una sala di circa 80 mq. Chiamò ad affrescare le pareti un pittore, che veniva a villeggiare a Trevi, il quale vi dipinse una serie di raffinate vedute panoramiche viste dal colle.

Con la fine della seconda guerra mondiale ed il conseguente sviluppo economico si rese necessario altro ampliamento e così fece costruire un grande salone panoramico con vista sulla vallata.

Vari furono i piatti famosi del suo menù. Il primo, che inizialmente fu quello che lo distinse, furono i vincisgrassi. La prima volta li servì in occasione di un pranzo per la Festa del Crocifisso di Bovara. Il successo fu tale che i bovaresi lo portarono in trionfo.

Checco Barbini in una delle numerose caricature di Simone Brunelli

Altri piatti che incontrarono un grandissimo successo furono i “Cappelletti al tartufo” ed il “Risotto alla viennese” che andarono ad unirsi egregiamente alla Galantina di pollo, ai piatti di cacciagione, che allora copiosa si cacciava a Trevi, ed ai piatti di pesce, astici, aragoste, scampi ecc., che si faceva spedire da Civitavecchia, come da Genova, da una famosa ditta d’importazione, si faceva spedire il caviale russo ed il salmone affumicato scozzese.

Oggi, questi prodotti sono reperibili in qualsiasi supermercato ma, allora, si potevano trovare soltanto nelle più importanti città italiane.

Dopo aver trascorso l’intera mattinata in cucina, passava in sala dove si dedicava alla cura del cliente per il quale era sempre prodigo di consigli e, quando capiva che per necessità doveva dare tempo alla cucina, sapeva intrattenere con la sua conversazione sempre spiritosamente brillante.

Grandissima importanza dette alla cantina che faceva visitare soltanto ai clienti più affezionati. Vi ospitava i principali vini nazionali e stranieri e una delle sue più grandi soddisfazioni era quella di poter rispondere, ad un cliente che richiedeva una certa annata di un tal vino: “ce l’abbiamo”. Non furono pochi gli “svelti” che dovettero, poi, stare al gioco.

In sala aveva, per quei tempi, una stravaganza: i camerieri dovevano sempre indossare giacca bianca, pantaloni neri e camicia bianca con una cravatta nera. Introdusse, forse per primo, le cameriere in nero e grembiulino bianco arricchito con merletti. I clienti più numerosi li aveva a Spoleto e Foligno, poi, a Perugia e, quando la sua fama giunse a Roma, Trevi ogni domenica era inondata di macchine e pullman provenienti dalla capitale.

Ovviamente il suo locale ospitò importantissime personalità nazionali ed estere sia in campo politico che religioso, artistico ed economico, compreso anche qualche re. Aveva l’abilità di saper fingere di riconoscere tutti. Una volta che gli si presentarono Alida Valli ed Amedeo Nazzari, attori italiani che allora andavano per la maggiore, e messo alle strette da Nazzari, che aveva capito che non l’aveva riconosciuto, si salvò chiedendogli: “In quale ramo siete famosi?”.

“Nel cinema” gli risposero.

“Scusatemi, ma l’ultima volta che ci andai fu nel 1938”.

Non volle mai fare, del suo, un locale esclusivo. Amava affermare che la cucina è un’arte che capiscono tutti e provava una grande soddisfazione quando vedeva nel tavolo accanto a quello che ospitava il re di Svezia una famiglia qualunque.

Una volta che un contadino lo interpellò per il pranzo di nozze della figlia, gli chiese:

“Che vuoi per menù?”

E l’altro: “ A Che’, non comincia' co' li piatti difficili. A me lu menù non me piace!”

A tavola raramente faceva arrivare il piatto già pronto ma sempre quello di portata ed i camerieri avevano l’ordine di servire il cliente finché non fosse questi a dire: “ora basta”.

Ci pensava lui, all’atto di redigere il conto, a sistemare quelli che tentavano d’approfittare dell’usanza del locale.

Amava i clienti che apprezzavano la buona tavola ed aveva in uggia quelli che spizzicavano soltanto qualcosa. Nel suo locale quelli che mangiavano poco pagavano anche per quelli che mangiavano più abbondantemente.

Non accadde mai, lui presente in sala, che un cliente lasciasse qualcosa sul piatto senza che lui intervenisse chiedendogliene la ragione, sempre pronto a sostituire il piatto se non fosse stato di gradimento del cliente.

Una ristorazione d’altri tempi?

A.B. 2001

 

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