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Alle Fonti del Clitunno
Giosuè Carducci, Valdicastello di Pietrasanta (LU),1835 - Bologna, 1907. Riportiamo di seguito la critica pertinente all'ode. Le Rime nuove e Le Odi barbare, soprattutto, comprendono i documenti della maturità lirica carducciana, sul doppio registro della strofa rimata – dal sonetto canonico, alle quartine di settenari o di endecasillabi, alla alcaica con rime alterne – e della strofa classica senza rime, che, attraverso la combinazione di versi italiani, riproduce un’eco «barbara» della metrica greco-latina sull’esempio prevalente di Klopstock, Goete e von Platen [G. Inglese].
Nel giugno del 1876 il Carducci andò ispettore al liceo di Spoleto e volle visitare le fonti del Clitumno, a mezz’ora circa di carrozza dalla città; sul luogo pensò l’ode che fu scritta tra il 2 luglio e il 21 ottobre di quell’anno. Tra le odi barbare questa è giudicata « la più alta, la più solenne, la più classica » (Mazzoni e Picciola); si può dire che è la più carducciana, poiché vi sono adunati « tutti i varii motivi e le varie forme della poesia del Carducci: la vita agricola, la grandezza di Roma, l’odio all’ascetismo, la risorta Italia, il ricordo storico e la visione diretta » (Croce). « Forse in nessun’altra poesia del Carducci come nell’ode Alle fonti del Clitumno risplende così evidente quella fedeltà alla tradizione classica più alta e più pura, quella spiccata attitudine a rammodernare, anzi a proseguire di spiriti attuali il pensiero antico, quella insita e intima simpatia con quanto di bello e di grande ci trasmise il passato, che, non s’imputino a difetto di facoltà creativa, ormai per consenso di tutti s’ammirano nella migliore e maggior parte dell’opera del Carducci come una delle più ricche sorgenti d’ispirazione ». (A. Gandiglio). Comincia con la descrizione del paesaggio umbro: anche oggi, come nei tempi antichi, le greggi scendono al Clitumno nell’umido vespero e i fanciulli immergono le pecore riottose nell’onda. Nella descrizione il poeta fonde quel che vide con i propri occhi e i suoi ricordi letterari. Quindi commosso si rivolge all’Umbria che, quasi creatura viva e maestosa , gli pare guardi dai monti circostanti, mentre su l’Appennino fumano oscure le nubi, e la saluta con entusiasmo; e saluta anche il Clitumno, nume protettore del fiume. In quei luoghi splendidi per natura e gloriosi per tante memorie il poeta si sente in cuore l’antica patria e gli aleggiano su l’accesa fronte i numi italici; perciò insorge vedendo sui rivi sacri l’ombra del salcio piangente, molle pianta moderna, amore d’umili tempi. Qui combatta il leccio contro le bufere invernali e frema d’arcane storie ai venti primaverili; qui stiano, giganti vigili i cipressi; e il Clitumno canti gli antichi fati della patria: canti la storia di tre imperi, degli Umbri degli Etruschi e dei Romani, e la grande vittoria che questi popoli italici unificati da Roma riportarono a Spoleto contro Annibale. Dove sono ora quei canti di trionfo? Tutto è silenzio: nel limpido specchio dell’acqua rameggia una piccola foresta con bei fiori, che hanno i riflessi freddi del diamante e invitano ai silenzi del verde fondo. Qui, esclama ammirato il poeta è la fonte della poesia italica; qui, ai piedi dei monti, all’ombra delle querce e sulle rive dei fiumi, cioè in questa bella, serena e austera natura italiana; qui visserro un tempo le ninfe che cantavano in coro nelle notti lunari gli amori di Giano e di Camesena, onde nacque l’itala gente. Ma ora il nume Clitumno non ha più culto nell’unico tempietto superstite; né più i tori, resi candidi dall’onda purificatrice del fiume, conducono i carri dei trionfatori al Campidoglio; Roma più non trionfa, dacché il Cristianesimo portò il terrore della morte e l’ebbrezza del dissolvimento sui campi risonanti del lavoro umano e gloriosi per gli augusti ricordi dell’impero. Da ciò il poeta torna col pensiero ai tempi antichi quando l’anima umana era serena nella Grecia e intera e diritta in Roma pagana; e poiché ormai son passati i giorni fosche della abiezione medievale, saluta l’Italia, a cui rinnova i canti dell’antica lode virgiliana. Plaudono all’inno i monti, i boschi e l’acque dell’Umbria, mentre il vapore, che passa lì presso, fischia fumando e anelando nuove industrie nella rapida corsa. [F. Bernini, L. Bianchi, Carduci, Pascoli, D’Annunzio, Bologna, 1954] Metro: ode saffica in strofe tetrastiche, formate da tre endecasillabi con la cesura dopo la quinta sillaba e l’accento su la quarta, e di un quinario variamente accentato (Adonio). È il metro stesso del Carmen saeculare di Orazio; solenne come un inno religioso.[F. Bernini, L. Bianchi, Carduci, Pascoli, D’Annunzio, Bologna, 1954]
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Ancor dal monte, che di foschi ondeggia frassini al vento mormoranti e lunge per l’aure odora fresco di silvestri salvie e di timi,
scendon nel vespero umido, o Clitumno, a te le greggi: a te l’umbro fanciullo la riluttante pecora ne l’onda immerge, mentre
ver’ lui dal seno del madre adusta, che scalza siede al casolare e canta, una poppante volgesi e dal viso tondo sorride:
pensoso il padre, di caprine pelli l’anche ravvolto come i fauni antichi, regge il dipinto plaustro e la forza de’ bei giovenchi,
de’ bei giovenchi dal quadrato petto, erti su ‘l capo le lunate corna, dolci ne gli occhi, nivei, che il mite Virgilio amava.
Oscure intanto fumano le nubi su l’Appennino: grande, austera, verde da le montagne digradanti in cerchio L’Umbrïa guarda.
Salve, Umbria verde, e tu del puro fonte nume Clitumno! Sento in cuor l’antica patria e aleggiarmi su l’accesa fronte gl’itali iddii.
Chi l’ombre indusse del piangente salcio su’ rivi sacri? ti rapisca il vento de l’Appennino, o molle pianta, amore d’umili tempi!
Qui pugni a’ verni e arcane istorie frema co ‘l palpitante maggio ilice nera, a cui d’allegra giovinezza il tronco l’edera veste:
qui folti a torno l’emergente nume stieno, giganti vigili, i cipressi; e tu fra l’ombre, tu fatali canta carmi o Clitumno.
testimone di tre imperi, dinne come il grave umbro ne’ duelli atroce cesse a l’astato velite e la forte Etruria crebbe:
di’ come sovra le congiunte ville dal superato Cìmino a gran passi calò Gradivo poi, piantando i segni fieri di Roma.
Ma tu placavi, indigete comune italo nume, i vincitori a i vinti, e, quando tonò il punico furore dal Trasimeno,
per gli antri tuoi salì grido, e la torta lo ripercosse buccina da i monti: tu che pasci i buoi presso Mevania caliginosa,
e tu che i proni colli ari a la sponda del Nar sinistra, e tu che i boschi abbatti sovra Spoleto verdi o ne la marzia Todi fai nozze,
lascia il bue grasso tra le canne, lascia il torel fulvo a mezzo solco, lascia ne l’inclinata quercia il cuneo, lasci la sposa e l’ara;
e corri, corri, corri! Con la scure e co’ dardi, con la clava e l’asta! Corri! Minaccia gl’itali penati Annibal diro.-
Deh come rise d’alma luce il sole per questa chiostra di bei monti, quando urlanti vide e ruinanti in fuga l’alta Spoleto
i Mauri immani e i numidi cavalli con mischia oscena, e, sovra loro, nembi di ferro, flutti d’olio ardente, e i canti de la vittoria!
Tutto ora tace. Nel sereno gorgo la tenue miro salïente vena: trema, e d’un lieve pullular lo specchio segna de l’acque.
Ride sepolta a l’imo una foresta breve, e rameggia immobile: il diaspro par che si mischi in flessuosi amori con l’ametista.
E di zaffiro i fior paiono, ed hanno dell’adamante rigido i riflessi, e splendon freddi e chiamano a i silenzi del verde fondo.
Ai pié de i monti e de le querce a l’ombra co’ fiumi, o Italia, è dei tuoi carmi il fonte. Visser le ninfe, vissero: e un divino talamo è questo.
Emergean lunghe ne’ fluenti veli naiadi azzurre, e per la cheta sera chiamavan alto le sorelle brune da le montagne,
e danze sotto l’imminente luna guidavan, liete ricantando in coro di Giano eterno e quando amor lo vinse di Camesena.
Egli dal cielo, autoctona virago ella: fu letto l’Appennin fumante: velaro i nembi il grande amplesso, e nacque l’itala gente.
Tutto ora tace, o vedovo Clitunno, tutto: de’ vaghi tuoi delùbri un solo t’avanza, e dentro pretestato nume tu non vi siedi.
Non più perfusi del tuo fiume sacro menano i tori,vittime orgogliose trofei romani a i templi aviti: Roma più non trionfa.
Più non trionfa, poi che un galileo di rosse chiome il Campidoglio ascese, gittolle in braccio una sua croce, e disse Portala, e servi -.
Fuggîr le ninfe a piangere ne’ fiumi occulte e dentro i cortici materni, od ululando dileguaron come nuvole a monti,
quando una strana compagnia, tra i bianchi templi spogliati e i colonnati infranti, procede lenta, in neri sacchi avvolta, litanïando,
e sovra i campi del lavoro umano sonanti e i clivi memori d’impero fece deserto, et il deserto disse regno di Dio.
Strappâr le turbe a i santi aratri, a i vecchi padri aspettanti, a le fiorenti mogli; ovunque il divo sol benedicea, maledicenti.
Maledicenti a l’opre de la vita e de l'amore, ei deliraro atroci congiungimenti di dolor con Dio su rupi e in grotte;
discesero ebri di dissolvimento a le cittadi, e in ridde paurose al crocefisso supplicarono, empi, d’essere abietti.
Salve, o serena de l’Ilisso in riva, intera e dritta ai lidi almi del Tebro anima umana! I foschi dì passaro, risorgi e regna.
E tu, pia madre di giovenchi invitti a franger glebe e rintegrar maggesi e d’annitrenti in guerra aspri polledri Italia madre,
madre di biade e viti e leggi eterne ed inclite arti a raddolcir la vita, salve! A te i canti de l’antica lode io rinnovello.
Plaudono i monti al carme e i boschi e l’acque de l’Umbria verde: in faccia a noi fumando ed anelando nuove industrie in corsa fischia il vapore.
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