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Francesco Francesconi (1823-1892)

Il personaggio

 

da: Carlo Zenobi,  Storia di Trevi 1746-1946, Foligno, 1987, pagg.252-264

 

Nota:Tra parentesi acute < > è riportato il numero della pagina: se non c’è spazio con la parola che segue significa che essa era stata divisa e nel testo originale risulta in parte nella pagina precedente.
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Modestissimo in tutte le sue manifestazioni riuscì a fare in modo da essere tanto poco conosciuto. Eppure fu uno di quei tanti fili della trama politica e culturale del suo tempo, come l'estensore della lapide, posta nel palazzo comunale, mirabilmente sintetizza: «Al cittadino benemerito — prof. cav. Francesco Francesconi — che amor di patria e la scienza unirono ì per la propaganda del nuovo pensiero filosofico — e per la riscossa del 48 - a Rosmini Gioberti Tomasseo e d Mamiani — Trevi tre anni dopo la sua morte».

Seguiamo il Francesconi in quel groviglio di idee, di tentativi, di azioni, di incontri, di scontri di uomini per tanti versi entrati nella storia d'Italia in quel ribollente periodo che immediatamente precedette e seguì il 1848. Ciò faremo riportando larghi squarci delle memorie biografiche (per lo più sconosciute) stilate subito dopo la morte del Francesconi dal prof. mons. Giuseppe Agostini che l'ebbe padrino di battesimo, che ben lo conobbe, che ne fu intimo amico, e che ebbe comoda la consultazione dei documenti dai quali la interessante narrazione è tratta, Nacque il Francesconi nel marzo 1823 in Casco dell'Acqua di Trevi. A nove anni entrò nel Collegio Lucarini in quel tempo retto dal dott. Fausto Bonacci di Recanati. Ivi studiò grammatica, umanità, retorica ed eloquenza. Andò poi a compiere gli studi a Perugia, dove lo chiamava e lo faceva prefetto nel Collegio della Sapienza lo stesso dott. Bonacci che, trasferitosi da Trevi, ne teneva la direzione. E là il Francesconi studiava contemporaneamente le scienze filosofiche e le lingue antiche e moderne: il greco, il tedesco, l'inglese e il francese, lingua questa che parlava con tutta proprietà e disinvoltura. A 23 anni era laureato, a pieni voti, in filosofia e matematica, in diritto civile e canonico, in teolo

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gia e sacra scrittura, e incominciava gli studi archeologici, nei quali poi riuscì peritissimo. Nel 1847 veniva nominato professore di filosofia a Perugia nella Sapienza, a Spoleto nel Seminario, a Spello nel Convitto Rosi.

«Incominciamo a seguire il Francesconi nei movimenti del '48, quando una febbre di patriottismo e d'innovazioni pervadeva e teneva in fermento tutta l'Italia. Noi (è il prof. Agostini che scrive) ci tratterremo a dettagliare certe notizie particolari del nostro amico, ma che entrano nel gran movimento politico di quei tempi, perché sono sconosciute a tutti, e con lunghe e minuziose ricerche si son potute raccogliere su frammenti di memorie e di lettere lasciate dal Francesconi, e tenute, con modestia senza esempio, nascoste finché visse, anche ai parenti, Premettiamo intanto che il nome suo andrà sempre unito a quello del Rosmini.

Fra i grandi progetti di riforme, Roma e il Piemonte invocavano l'opera intelligente, sinceramente patriottica dell'abate Rosmini. Il cardinal Soglia e il Castracane lo pregavano con insistenza di recarsi a Roma, dove, col suo consiglio, avrebbe potuto giovare non poco all'indirizzo del governo nelle critiche circostanze politiche e religiose in cui si trovava il Pontefice (Lettere di C. Galiardi 19 aprile-22 maggio e 19 luglio 1848 all'abate Rosmini). E siccome egli, per ben due volte, rispose che non sarebbe andato finché non ne avesse avuto invito formale dal S. Padre, mentre a Stresa, dove si trovava, sentiva di poter svolgere la sua opera a far del bene (lettera da Milano 30 aprile 1948), lo stesso Castracane lo consultava sul suo parere riguardo alla promulgazione di uno statuto civile. E fu allora che stampò a Milano il suo progetto di costituzione, che, come si sa, arrivò troppo tardi. Intanto il Francesconi faceva stampare a Perugia, dal Bartelli, le «Cinque piaghe della Chiesa» del Rosmini, e vi aggiungeva le due famose lettere «Sulle elezioni vescovili», che questi stesso gli aveva mandato, Il libro delle "Cinque piaghe", come è noto, fu condannato dalla Chiesa con decreto del 30 maggio 1849 e il Rosmini lo ritrattò; ciò però non vuol dire che esso non conoscesse benissimo che per certo l'opera sua non avrebbe incontrata l'approvazione di Roma. Il difficile era dunque di farlo recapitare a Pio IX. Fra il nuovo pontefice e il Rosmini passavano relazioni molto benevole, né il Rosmini era certo quello che avesse voluto affrontare direttamente la riprovazione. D'altra parte voleva che il libro fosse letto diffusamente, ritenendo opportuno per i tempi che corre-
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 vano e per le idee che propagava. Checché ne sarebbe poi avvenuto, poco gli dava a pensare: per ora era necessario guadagnar tempo per fargli largo e diffonderlo. Tutto era lì, che il Papa non ne prendesse sospetto e il libro passasse, in tanto tramestio di affari, come una novità qualunque e null'altro. Il Rosmini in un tratto delle "Cinque piaghe" faceva allusione alle nuove e felici speranze che il nuovo Pontefice faceva nascere negli italiani: allusione che forse nell'intenzione del l'autore gli avrebbe cattivato l'animo del Mastai, e che avrebbe in qualche modo giustificato il suo ardimento, con farlo parere almeno di buona fede. Era dunque assolutamente necessario trovar persona che avesse con abilità diplomatica, presentato il libro a Pio IX. Notiamo intanto che il Galiardi si trovava come procuratore generale del Rosmini a Roma, ed era in tanta intimità con la corte pontificia, che per il suo mezzo venivano trasmessi a Stresa le approvazioni, i desideri, i voleri del S, Padre e dei cardinali. Nessuno perciò meglio di lui avrebbe potuto assumere il delicato incarico. Eppure toccò al Francesconi di togliere d'imbarazzo il Rosmini. Egli intimo della corte seppe abilmente cogliere il momento opportuno, e un giorno che si trovava a conversare con Pio IX insieme con mons. Stella, passò quasi furtivamente il libro "Delle Cinque Piaghe" nelle mani di monsignore, ma con un sotterfugio così poco celato, che Pio IX se ne avvide e disse, come era da aspettarsi: «Che libro abbiamo», e il Francesconi, che non desiderava di meglio, rispose: «E un'opera nuova del Rosmini, molto opportuna, io credo, per i tempi nostri». E il Papa, toltolo di mano a monsignore: «Va bene, disse, voglio leggerlo prima io», e si ritirò nel suo gabinetto, Quando poi il Galiardi dopo qualche giorno si presentò al Papa per offrirgli il libro a nome del Rosmini, scusandosi del ritardo che gli aveva cagionato il legatore: «Ma state tranquillo, rispose Pio IX, l'abbiamo già letto».

E sempre a proposito delle "Cinque Piaghe" non va dimenticata un'altra circostanza che rivela quanto stesse a cuore al Francesconi di conciliare al Rosmini le simpatie degli uomini dotti, allora più in voga in Italia, per il trionfo del suo programma politico, che era ugualmente il programma del Francesconi. Egli sapeva che il Gioberti e il Mamiani, divenuti necessari per quei momenti, erano avversari cordiali dell'abate Rosmini non già solo a motivo delle diversità dei principi filosofici che professavano, ma perché ormai nessuno contrastava più al Rosmini il primato in filosofia, Per raccogliere

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le forze ad uno stesso scopo bisognava pacificare quegli animi e ridurli se non amici sinceri, almeno toglier via di mezzo l'antipatia personale. Il Francesconi, più che amico, intimo del Tommaseo, si adoperò insieme con lui a conciliare tra loro i tre grandi uomini, che erano allora la vita dell'Italia, lasciando sempre libero il campo alle libere disquisizioni scientifiche. Il buon Tomasseo, nella prima parte dei suoi «Studi critici» dopo aver rilevato gli accordi e i disaccordi dei due sistemi del Gioberti e del Rosmini, conclude così: «Amo il Rosmini come il raggio di luce più che umana che illuminò la mia giovinezza, ma ed il Gioberti amo, e rammento i colloqui dell'esilio e gli esempi della sua schietta virtù. Rammenti anch'egli quelle ore, che forse ne attingerà qualche senso d'indulgenza e di pace. Che se le ire e i dispregi gli abbondano, in me li volga; ma rispetti il nome, che egli chiamò venerabile, cui certamente, se conoscesse, amerebbe. S'amino entrambi e perdonino da uomo tanto minore di virtù e di dottrina l'audace consiglio. S'amino e con forze riunite concorrano ad ampliare il retaggio della generazione avvenire. Io non sono degno di impetrare da tali anime un sacrificio, ma dalla generosità loro innata lo spero. E se l'ottengo, avrò spesa non vanamente la mia vita» (Pag. 214, Venezia 1843). E come il Tomasseo con la sua dolce parola si provava a riconciliare Gioberti con Rosmini, il Francesconi si adoperò di riconcigliargli il Mamiani. [...] Il Francesconi tentò di affrontare l'ardente filosofo per intendersi con lui, per discutere e ridurlo avversario almeno più coscenzioso. Gli si presentò col pretesto di offrirgli «Le cinque piaghe» a nome dell'autore. Il mezzo termine non poteva essere meglio trovato. Era il combattuto Rosmini che in quei momenti di ebrezza politica mandava in regalo da un cavaliere così compito e così abile ad accattivarsi l'animo altrui, come Francesconi, un libro palpitante di attualità, a Terenzio Mamiani, all'avversario suo, in senso di stima e di affetto. Le prime parole del Mamiani al Francesconi furono queste: «Oh, che il Rosmini si ricorda di me? Ma me lo ringrazi, io leggerò il libro con piacere, come leggo tutte le opere del grande filosofo». Il colpo era riuscito, e il Francescani poté riportare al Rosmini la lieta novella che Terenzio lo stimava ed amava! [...] E ciò basti per intendere quali relazioni passavano tra il Francescani e il Rosmini, e quali intelligenze politiche.

Quando si incominciò a discutere il progetto della confederazione italiana tra Roma, Firenze e Torino, dalla corte di Piemonte si

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opponevano difficoltà sul luogo da scegliersi come sede della negoziazione. Prevalse l'idea di Roma per deferenza al Pontefice, e Rosmini fu scelto dal ministero di Torino a rappresentare gl'interessi della corte sabauda presso la S. Sede. [...] Il Rosmini giungeva a Roma il 15 agosto, e il 17 ebbe udienza dal S. Padre, a cui presentò le lettere autografe di Carlo Alberto. Il Francesconi, conosciuta la missione del Rosmini, caldissimo fautore anche lui della confederazione, gli volle essere compagno, e cooperò con tutta la sua ardente attività perché trionfasse l'idea di questa soluzione pacifica, che avrebbe risparmiato tante lagrime e tanto sangue! E fu appunto allora che strinse vincoli di più intima amicizia col padre Gavazzi, il quale con una eloquenza spesso piazzaiola e con mimica teatrale eccitava allora gli entusiasmi per quel Pio IX che poco dopo avrebbe maledetto. Ed è curioso il caso che incontrò il Francesconi quando, riportando in convento gli abiti del Gavazzi che si era sfratato per vestire la camicia rossa di Garibaldi, passò pericolo d'essere bastonato dal laico portinaio credutosi offeso, come d'un insulto, dall'atto e dalle parole ingenue e quasi festose del Francesconi che gli disse semplicemente: «Ecco che cosa vi riporto del padre Gavazzi». E mentre il Rosmini apriva nel palazzo Albani le sue conferenze (26 agosto 1848) sulla confederazione, il Francesconi ne propagava le idee con lo scritto e con la parola [...].

Un altro illustre italiano Massimo d'Azeglio, propugnava valorosamente la causa della confederazione [...] E il D'Azeglio trovava nel Francesconi l'amico fedele che gli faceva la propaganda con abilità sicura e rapida non solo nelle città dell'Umbria, ma per lo stato pontificio, giovandosi dell'opera discreta e intelligente di provati amici. Ed è osservazione degna di nota che né il Tomasseo, né il D'Azeglio, né il Francesconi, patrioti sinceri, intelligenti, attivissimi vollero mai appartenere a società segrete. [...]

Ora da Roma trasportiamoci a Venezia: là il sentimento comune era la rivendicazione della libertà, Reggevano le cose pubbliche Daniele Manin e Nicolò Tomasseo, il quale ultimo preferiva all'unione col Piemonte una repubblica indipendente [...] Il Francesconi, intimo del Tomasseo, lo informava di tutto quanto accadeva a Roma, e questi lo confortava ad aiutarlo per la causa di Venezia con la penna e col denaro [...] Il Francesconi intanto riceveva lettere private del Tomasseo, con le quali, come abbiamo accennato, lo pregava, lo scongiurava di scrivere e di raccogliere denaro per la causa di Ve

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nezia. E fu in questa circostanza che il Francesconi, col pericolo di essere arrestato e fucilato, andò fin là a portare non lievi soccorsi al pietoso amico. [...]

Intanto l'attività del Francesconi pareva instancabile, quasi febbrile: né si sa concepire come nel tempo stesso che dettava lezioni difficili e nuove dalla cattedra, organizzava nell'Umbria e altrove la scuola rosminiana, potesse seguire ed essere gran parte di tutti i movimenti politici che tenevano in fermento l'Italia. E così, ora come filosofo rappresentante di una scuola allora molto in voga, ora come politico, scriveva sui giornali più diffusi: nel Labaro, nel Nazionale, nel Costituzionale, nell'Imparziale di Faenza, nell'Osservatore Dorico di Ancona, nello Statuto di Firenze, nell'Utile dulci d'Imola, dove la censura gli sequestrò per due volte due studi, forse d'intonazione troppo politica, su Gioberti e Rosmini.

E per seguir gli avvenimenti di quei torbidi giorni, essendo ormai fallita la speranza di una confederazione nazionale, e crescendo in Roma i pericoli per il Pontefice, Pio IX fuggì a Gaeta. Il Rosmini lo seguì [...]. Il Francesconi era al giorno di tutto, non solo per le relazioni col Rosmini, quanto anche per le molte e preziose conoscenze che aveva in Roma, trovandosi di essere il confidente e l'intimo segretario del cardinale Antonelli. Questo breve periodo della vita del Francesconi ci rimane assai oscuro, ma da qualche sua espressione che involontariamente e assai di rado gli usciva dei fatti suoi, quasi come preso alla sprovvista, si può dedurre che già gli fossero noti gli intrighi dell'Antonelli, e, spirito indipendente e onestamente dignitoso quale egli era, non si peritò di manifestare al cardinale il suo disgusto. E questi alla sua volta allontanò da sé il censore importuno. Ecco quale attestato gli spediva a Perugia il Fausti nel 1849 dopo la sua partenza da Roma: «Io sottoscritto faccio testimonianza per la verità che il sig. Francesco Francesconi fu chiamato dall'Eminentissimo Antonelli per suo uditore e segretario nell'epoca che S. E. fu nominato presidente della Consulta di Stato e che lo servì nella qualifica suddetta per tutto il tempo che durò la Consulta stessa. Chiamato poi il prelodato cardinale alla Segreteria di Stato, cessò lo scopo per il quale aveva presso di sé il Francesconi e dové per conseguenza ringraziarlo [...]. F/to Fausti. [...]

Intanto non si era ancora potuto sapere quale risoluzione avrebbe presa il papa: se raffidarsi alla devozione de' suoi sudditi o alla forza delle armi straniere. Fu allora che il Francesconi scrisse a Pio

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IX una lettera caldissima di affetto e di sentimento pietoso per gl'italiani, in cui lo pregava a tornare alla sua Roma, dove, accomodate le vertenze, sarebbe accolto con gioia, se non voleva veder l'Europa levarsi in armi e spargere sangue innocente. Gli fa poi una esposizione diffusa dello stato e delle condizioni politiche d'Europa. Questa lettera fu presentata al Papa dall'abate Rosmini, che sosteneva col Francesconi la stessa tesi contro il cardinal Antonelli, cioè il ritorno del Papa a Roma. Che ne dicesse Pio IX noi non sappiamo [...] Ci dispiace di non aver potuto trovare una copia esatta di questa lettera, che abbiamo semplicemente desunta (É sempre il prof. Agostini che scrive) da un breve cenno che il Francesconi ne fa in un'autodifesa da lui sostenuta innanzi al cardinal Pecci, allora vescovo di Perugia, ora Leone XIII (queste note furono appunto scritte vivente Leone XIII) e a mons. D'Andrea (Commissario Pontificio) per essere stato deposto, come vedremo poi, dalla cattedra della Sapienza.

Il Francesconi fu di carattere indipendente anche in fatto di politica; i suoi principi professò sempre con la coscienza della convinzione senza riguardi, senza paure, senza servilità, senza secondi fini. Per lui avere la convinzione di un ideale era lo stesso che mettersi nell'impegno di attuarlo con zelo e attività instancabili; era quindi naturale che non gli dovessero mancare dei fastidi specialmente da parte delle autorità, a cui non potevano restare occulti il pensiero, le relazioni, gl'impegni del Francesconi.

Fin dall'agosto 1847 l'arcivescovo di Spoleto mons. Sabbioni, come suo legittimo superiore, lo chiamava alla cattedra di filosofia della Sapienza di Perugia e lo nominava professore nel suo seminario. Il Francesconi, che vestiva ancora da chierico e non aveva assolutamente deposto il pensiero di essere ordinato sacerdote, sebbene a malincuore obbedì alla chiamata del suo ordinario, tanto più che lo invitavano anche le insistenze del rettore Guizzi suo ammiratore e le preghiere dello Speranza suo carissimo amico. Intanto, nell'ottobre, anche il Municipio di Spoleto lo nominava professore di filosofia nel pubblico liceo; ma il Sabbioni non volle sanzionare quella nomina, diceva, per sue particolari ragioni. Il rifiuto offese il Francesconi, che partì da Spoleto svestendo l'abito; e il popolo commosso e indignato per il fatto si ammutinò e fece una violenta e indecentissima dimostrazione fischiando e urlando sotto il palazzo dell'episcopio, frantumando a furia di sassi i vetri delle finestre, non senza

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minacciare nuovi e più gravi disordini. La notizia di questa sommossa fece il giro di parecchi giornali, che chiamarono il Francesconi responsabile del tumulto. Vedi Il Labaro, La Gazzetta di Modena, La Speranza e specialmente Il Costituzionale. Egli a Perugia apprese dagli scritti di quei giornali la selvaggia dimostrazione di quel popolo, che certamente non poté approvare: ma non dissimulò la sua indignazione per quella acerba e forse ingiusta censura. Allora per mezzo del Gavazzi fece presentare una vivace protesta al Ministro della Pubblica Istruzione, a Roma; così come fece ritrattare dal giornale romano Il Costituzionale le sue parole offensive per avere, senza cognizione di causa, gettato il discredito sulla sua onestà,chiamandolo responsabile di quanto era avvenuto a Spoleto. Da quanto abbiamo narrato si deducono due conseguenze, che dimostrano ugualmente l'importanza politica del Francesconi conosciuta anche a Spoleto: aver dato cioè occasione a un tumulto popolare per la sua partenza, dopo pochi mesi di sua permanenza colà, e il sospetto in cui era tenuto dalle autorità locali, che in lui dovevano vedere un reazionario temibile.

Ma prove ben più dolorose, oltre le disillusioni politiche che lo rattristarono assai, gli erano riservate. E qui dobbiamo dire due parole sul Collegio della Sapienza, dove si svolsero i fatti che verremo poi raccontando. Queste parole trascriviamo da una necrologia stampata parecchi anni dopo dallo stesso Francesconi nelle «Lettere di Famiglia» l'aprile 1872 [...]: «Per corrispondere alle idee progressive e liberali che si andavano svolgendo, il Bonacci(1) propose, e la superiorità accettò, l'aumento di una cattedra per gli ultimi due anni di corso, che fu la filosofia della storia. Già negli anni precedenti, i giovani di più estesa capacità, avevano avute lezioni sul pro‑

 

 

(1) Nota apposta dal prof. Agostini - D. Fausto Bonacci, allora rettore della Sapienza di Perugia, era stato nominato nel 1830, per via di concorso, rettore del collegio convitto Lucarini di Trevi, dove si trattenne per parecchi anni, finché contrariato per le solite meschine antipatie e gelosie personali, rinunziò dignitosamente la direzione del collegio di Trevi, e fu con grande aspettazione di Perugia, nominato rettore della Sapienza. Si deve all'opera del Bonacci se il collegio poté essere trasportato dai locali del palazzo Lucarini all'ex convento di S. Francesco, non ostante le opposizioni di mons. Mastai, allora arcivescovo di Spoleto, che di quel convento e della chiesa meditava di fare la nuova collegiata e le canoniche. E il trasloco di mons. Mastai da Spoleto a Imola, si dové all'influenza del Bonacci, per mezzo del cardinal protettore.

 

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gresso e sulle leggi che lo governano; ma nel 1847-48 fu stabilita apposita cattedra, che, in più vasta orbita di cognizioni, mostrasse i fatti umani più disparati, connessi e tendenti all'attuazione della universale perfezione. Fu questa la prima cattedra di filosofia della storia impiantata in Italia. Così tutto fu armonizzato con l'entusiasmo, che era universale in quel tempo, e ciascuno si augurava il più lieto avvenire. Se non che le concepite speranze presto si dileguarono, e alle sperate prosperità successero realtà mai pensate. Dopo la sciagura di Novara, l'invasione tedesca in Perugia distrusse quanto aveva l'impronta di liberalismo ogni istituzione, e il collegio della Sapienza fu una delle prime vittime destinate all'olocausto. Tre dei suoi insegnanti destituiti dal Consiglio di censura: i professori di fisica, di filosofia della storia, e di filosofia razionale. Tra i professori destituiti si trovava anche il Francesconi. Da qualche suo scritto abbiamo potuto raccogliere che tre specialmente furono i capi d'accusa che ne motivarono la destituzione: 1° l'aver commentato a scuola il famoso discorso del P. Ventura sui martiri di Vienne; 2° l'aver fatto parte, esserne stato anzi l'anima per qualche tempo, del circolo popolare di Perugia; 3° l'aver proposta la demolizione della fortezza edificata da Paolo IV. Il discorso sui martiri di Vienne fu recitato dal Ventura il 27 novembre 1848 a S. Andrea della Valle, e, quando vide la luce con una introduzione e una protesta dell'autore, levò gran rumore per senso opportunamente patriottico e forse perché conteneva principi non consoni all'insegnamento cattolico. Con decreto 30 maggio 1849 venne condannato dalla Chiesa e l'autore riprovò l'opera sua. Non fa dunque meraviglia che il Francesconi, credente, potesse averlo commentato prima che l'autorità competente avesse pubblicata ufficialmente la sua condanna.

Innanzi a mons. D'Andrea e al vescovo Pecci il Francesconi giustificò non già la sua associazione al circolo, ma lo spirito stesso della associazione. [...] Noi, dice il Francesconi, ci trovammo senza governo: era dunque necessario che uomini seri e amanti dell'ordine, raccogliessero le loro forze per impedire le conseguenze che avrebbe potuto portare questo stato di cose così anormali. Le nostre adunanze erano pubbliche, e questo vuol dire che non si cospirava; il nostro fine era l'educazione del popolo alla libertà, e io col Rognotti e col Rossi rappresentavamo la commissione che doveva studiare il sistema della istruzione popolare. Quando minacciava la guerra civile, il circolo, come un governo provvisorio, temperò le ire, orga‑

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nizzò un governo di disciplina civile. É principio di diritto naturale che una città deve prima provvedere all'ordine pubblico, e poi occuparsi della questione del principe. Questo noi abbiamo fatto, perché prima della costituente, si tenne adunanza per deliberare se si dovesse raccomandare ai deputati un voto speciale del circolo, e si risolvé per la negativa, considerando che la repubblica era passo troppo ardito ed era da saggi di vedere le cose a Roma con maggiore lume e pacatezza. La nostra colpa sarebbe dunque di aver mantenuto ordinatamente gli uomini in società, quando il governo era cessato e rotto il vincolo sociale. Governo non c'era, e lo provo. Il Papa era partito, il ministero era diffidato, la commissione di governo da lui nominata era nulla di diritto; mai fu promulgata la legge onde la investiva d'autorità; mai assunse l'incarico perché non combinò col Papa [...]». Riguardo al terzo capo d'accusa, pare che la proposta della demolizione di quella fortezza, che porta scritta la famosa frase: Ad repellendam perusiniorum audaciam, sebbene mossa dal circolo, fosse stata un tempo approvata da Roma.[...] Ma dopo i fatti del 49, abbandonò la politica e si diede con tutta l'anima agli studi speculativi». Sin qui la narrazione dell'Agostini, la quale, offre un interessante quadro dell'epoca con tutte le sue luci e tutte le sue ombre, epoca vissuta intensamente anche dai nostri concittadini.

Tralasciamo quanto attiene ancora alla solerte vita del Francesconi come filosofo, come scrittore, come studioso di argomenti vari in Perugia, città che largamente si avvalse della di lui opera e consiglio. Di questo periodo ricorderemo solo che quando l'abate Stoppani salì il nostro Appennino per le sue ricerche geologiche, il Francesconi gli fu compagno di viaggio e di studi.

Poco prima del 1870 il Francesconi lasciò definitivamente Perugia e se ne tornò alla sua Trevi, mai dimenticata, largamente beneficandola del suo consiglio e del suo lavoro, come più sopra abbiamo detto. Consunto da non breve malattia morì l'11 marzo 1892.

 

 

La vita e le opere Don Giuseppe Agostini, Memorie del Professore, Cavaliere Francesco Francesconi, Politico, Filosofo e Cittadino Benemerito. Foligno, Tip. S. Carlo, 1892
     
Lettere di Alinda Bonacci Brunamonti Angela Zucconi, Lettere di Maria Alinda Brunamonti al Prof. Francesco Francesconi in Rassegna Nazionale-
Ott.-Nov. 1936
     

                                                                                     

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Aggiornamento: 27 aprile 2017.

Note
1)Zenobi, Carlo, Storia di Trevi 1746-1946, Foligno, 1987, pagg.252-253